Oreste amava guardarla dalla finestra mentre lei si spazzolava i capelli.
Le ricordava un’attrice del cinema americano degli anni Cinquanta di cui una volta sapeva il nome. Le sue giornate ruotavano intorno all’attesa del momento in cui lei appoggiava la spazzola sul mobile da toeletta e raggiungeva il letto, con l’incedere leggiadro di chi aveva dedicato la vita al balletto.
Oreste rimaneva immobile qualche secondo dopo che lei aveva spento la luce: la immaginava sdraiata su un fianco in un letto troppo grande per una persona sola, i lunghi capelli argentei sparsi sul cuscino. Poi sorrideva al buio dal palazzo di fronte, si riassestava il nodo alla cravatta e usciva.
Faceva il portiere notturno in un’azienda che aveva visto nascere da un’officina. Da qualche giorno non riusciva a smettere di rimuginare sulla marea di tempo libero che avrebbe avuto da lì a poche ore. La pensione gli metteva paura; sarebbe diventato ufficialmente vecchio, e lui vecchio ancora non si sentiva.
Quella sera, chiuso nel suo gabbiotto, si lasciò cullare dal cicaleccio proveniente dalla pineta. Pensò alla sua dirimpettaia, la ballerina d’argento. Non l’aveva mai incontrata, né si era mai arrischiato a disturbarla. Si incagliò di nuovo su un pensiero ricorrente, su quanto sarebbe stato bello parlare con lei. Poi, come tutte le volte, lo scacciò: era un ometto timido, all’antica; lei una signora di gran classe. Non avrebbe avuto nulla da spartire con uno come lui.
Eppure si convinse che aveva aspettato troppo a lungo. Il pensionamento gli avrebbe regalato il tempo, lui avrebbe dovuto trovare il coraggio che gli era mancato in tutti quegli anni. Quando rincasò di primo mattino gran parte della città dormiva ancora. Come di consueto si preparò una tazza di tè e raggiunse il divano del salotto. Dal mobile della televisione scelse “Il favorito della grande regina”, con Bette Davis.
«Orfeo ed Euridice» rifletté ad alta voce. «Sì, potrebbe andare».
Due biglietti per il balletto e un mazzo di gerbere erano poggiati sul pianale della cucina. Domani sarebbe stato il grande giorno.
Dopo cena Oreste si avvicinò alla finestra per augurare la buonanotte alla ballerina d’argento ma lei non era seduta al mobile da toeletta. Aspettò fino a mezzanotte. Niente. Il lampadario nella stanza da letto continuava a rimanere spento. Attese fino alle due, invano. Quella sera lei non accese la luce, né si spazzolò i capelli. Oreste non chiuse occhio per tutta la notte.
Il suono del campanello lo sorprese appisolato sul divano. Il sole era alto. Strisciò fino alla porta, guardò dallo spioncino. C’era un ragazzone serio dall’altra parte.
«Chi è?» biascicò da dietro la catena.
«Mi scusi. Mia zia voleva che avesse queste». Il ragazzo fece passare una scatola e una busta nello spiraglio. «Lei è l’inquilino del quarto piano, giusto? Quello dei film in bianco e nero».
Oreste sentì qualcosa spezzarglisi dentro. Aprì la lettera e si mise a leggere. «Sua zia…».
L’altro annuì. «Ieri. Il cuore le ha ceduto alla scuola di danza». Affondò negli occhi sconfinati di Oreste. Stavano prendendo fiato dall’ultima riga. «Mi dispiace tanto. Buona giornata, signore».
Avrei voluto avere la faccia tosta di suonare alla tua porta.
Avrei portato dei film, li avremmo visti sul divano del tuo salotto. L’ho sempre reputato troppo grande per una persona sola. Per anni, prima di colazione, mi sono nascosta dietro la tenda del soggiorno. Ho guardato con te i titoli di testa di ogni commedia, di ogni dramma, di ogni storia d’amore. Durante ogni lezione di danza che ho impartito mi sono chiesta come sarebbe stato arrivare insieme ai titoli di coda.
Ho avuto coraggio per tutta la vita, tranne che con te. Quando si invecchia si torna ragazzini, e come una ragazzina avevo la certezza che non sarei sopravvissuta se tu non avessi contraccambiato i miei sentimenti. Mi sono vista sfiorita e inadeguata, troppo in là con gli anni per avere il diritto di farmi avanti. Mi sarebbe piaciuto vincere tutte le mie insicurezze e conoscerti, caro amico del quarto piano. Se riceverai questa lettera vorrà dire che non ci sono riuscita. Il mio unico rimpianto è aver creduto fosse troppo tardi. Non dovrebbe mai essere troppo tardi, per nessuno, per nessuna cosa buona al mondo.
Sappi che il tuo ricordo è con me e lo sarà fino all’ultimo atto.
La platea del teatro si levò in un fragoroso applauso mentre calava il sipario. Oreste lasciò una gerbera sulla poltrona vuota di fianco alla sua, infilò il soprabito e ritornò a casa. Le gambe lo condussero fino alla finestra della cucina e lui non riuscì a opporsi.
«Che farò senza Euridice?» sospirò fino ad appannare il vetro.
L’icona della Madonna col Bambinello che teneva sopra il letto lo aveva vegliato per più di mezzo secolo. Oreste si allungò sul materasso, la staccò dal chiodino, baciò la cornice e la ripose nell’armadio. Al suo posto appese le scarpette di raso bianco dalla punta consumata che aveva ricevuto insieme alla lettera. Le guardò a lungo prima di spegnere la luce.
«Che terribile equivoco, amore mio» sorrise nel buio.
Il cuore di Oreste era quieto. Lei era lì con lui.
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