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Il riflesso di Carola

31 lunedì Ott 2016

Posted by Giorgia Penzo in Racconti

≈ 19 commenti

Tag

carola, creepypasta, dark, halloween, horror, mostri, orrore, paura, racconto, riflesso, specchio

Se le inquietanti madri nascoste dell’era Vittoriana e le tombe loquaci della stessa epoca non sono sufficienti per farvi nascere un brivido, se nemmeno le storie di un’oscura Biancaneve e della vita effimera di una ragazza maledetta sono abbastanza, forse conoscere il destino di Carola potrebbe essere la lettura adatta allo scopo.
Sicuri che alla fine riuscirete ancora a guardarvi allo specchio?

✥ Felice Halloween! ✥


Antefatto

Ogni bambino al momento della nascita, esattamente come ogni creatura od oggetto della terra, riceve due cose che lo accompagneranno per tutta la vita: l’ombra e il riflesso.
Diversamente da quelle degli animali, delle piante o delle cose, le ombre e i riflessi degli esseri umani assorbono  sin dal principio un poco del male del mondo.
Appena un neonato viene alla luce, le sue emanazioni intangibili cominciano a guastarsi: le ombre, che di giorno lo seguono assiduamente, di notte diventano un tutt’uno con l’oscurità. Si fondono insieme e, mentre la persona dorme, l’avvolgono come una coperta tetra e impenetrabile, creando incubi spaventosi. La natura delle ombre è pigra: sono schiave accidiose che, dopo i primi sogni angosciosi, aggrediscono il proprio padrone solo di rado.
Il vero pericolo, inaspettatamente, si nasconde negli specchi.
A differenza delle ombre, servili e un po’ ribelli, i riflessi sono ineluttabilmente gelosi.
Osservano il mondo dall’altra parte, invidiando la libertà dei loro signori e, quando nessuno li vede, tramano avidamente di prendere il loro posto. Osservano in segreto la persona alla quale appartengono, cercando il momento opportuno per sostituirsi a essa. Lo scambio non è mai consenziente.
Non vi è mai capitato di conoscere qualcuno che, da un giorno all’altro, ha mutato repentinamente atteggiamento? O che si è macchiato di qualcosa di cui non lo avreste mai sospettato? A volte, più spesso di quando si creda, queste persone non sono davvero chi crediamo che siano, ma i loro riflessi evasi.
Nel caso della signorina Carola Arnolfini, il suo riflesso attese dieci anni, fino a un tardo pomeriggio di luglio del 1953.


Primo atto

Carola era riservata e introversa, viziata come tutte le bambine sole e benestanti. Era l’unica figlia di una coppia borghese di Firenze che non aveva mai tempo per lei, e adorava solo tre cose: farsi pettinare i lunghi boccoli biondi dalla tata, andare in bicicletta nella tenuta di famiglia di Villa Esperide e passare le giornate nella stanza dei giochi.
Quella camera era piena di puledri di peluche, bambole, carillon, set da ricamo, casette in miniatura e un grande specchio che dava sul patio, posto di fianco a una spalliera di legno che utilizzava per gli esercizi di danza classica.
Carola aveva tutto quello che poteva desiderare e, nonostante l’affetto distaccato dei genitori, era una bambina felice. Il suo riflesso la odiava per questo.
Poteva giocare solo fino a quando lei non si stancava; assaporava il gelato ai lamponi quando la bambina lo mangiava davanti allo specchio; indossava controvoglia i pomposi abitini che piacevano tanto a quella piccola vanitosa e la seguiva di specchio in specchio senza poter mai accennare a un rifiuto. Ma, sebbene riproducesse tutti i movimenti di Carola, il riflesso non aveva mai sentito il suono della sua voce.
Da dietro lo specchio, attento a non farsi notare, vedeva la bambina correre in cortile, sapendo che mai avrebbe potuto imitarla. Quando però lei si faceva male e si specchiava in lacrime, con le ginocchia sbucciate, la sua immagine era costretta a piangere e a sanguinare con lei. Il suo risentimento cresceva giorno dopo giorno.
Quando giungeva il momento di coricarsi, il riflesso di Carola osservava la sua padroncina addormentata dallo specchietto sul comodino.
Gli ci vollero  nove anni per perfezionare il suo piano. Aveva a disposizione un solo tentativo per prendere il posto della bimba e sapeva che, se avesse fallito, non sarebbe più potuto fuggire dalla sua prigione.


Secondo atto

Quella fatidica domenica di luglio Carola era vestita a festa per il suo decimo compleanno. Aveva un delizioso vestitino bianco a fiori gialli e ballerine di raso in tinta. I camerieri erano indaffarati a preparare il rinfresco che si sarebbe tenuto da lì a breve in giardino e il riflesso di Carola approfittò della momentanea assenza della padroncina dalla stanza dei giochi.
Sopra un tavolino bordato da un centrino color crema, stava un piccolo vassoio d’argento. Al centro, su un piattino di porcellana, c’era la merenda che la premurosa tata aveva preparato per la bambina: una mela gialla tagliata a spicchi, lucida e sugosa, spruzzata di succo di limone, perché non annerisse, e poggiata su un letto di zucchero a velo.
Esattamente come nella realtà, anche nel mondo distorto del riflesso esisteva lo stesso vassoio, ma il frutto tagliato posto a raggiera non era succulento come quello vero. Era finto, insapore e fatale per qualsiasi creatura al di qua dello specchio. All’interno della polpa, infatti, era stipata l’essenza velenosa di quel non luogo: se un essere reale avesse ingerito cibo riflesso, avrebbe inevitabilmente corrotto il suo corpo solido e creato un ponte tra i due mondi.
L’immagine di Carola controllò di essere completamente sola, poi sporgendosi oltre lo specchio con estrema circospezione, afferrò il piattino e lo sostituì con quello del suo mondo. Li collocò entrambi nella stessa posizione, con precisione millimetrica, quindi sparì, in attesa che la bimba tornasse.
Non ci volle molto perché la festeggiata, incuriosita dai pacchetti stipati nella camera, rientrasse dal giardino per aprirli, in barba alle richieste dei genitori.
Si sistemò a gambe incrociate davanti alla grande specchiera, facendo scricchiolare le scarpe nuove sul parquet. La sua immagine, ovviamente, fece lo stesso. La bambina afferrò svogliatamente  uno dei regali con una mano, mentre con l’altra prendeva una fetta di mela. Se la portò alla bocca, ne staccò un pezzo con un morso e lo masticò per alcuni istanti, riponendo l’altra metà dello spicchio sul vassoio.
«Non sa di niente» borbottò tra sé, deglutendo.
Era fatta.
Il bigliettino d’auguri: “A Carola, la mia principessa, con immenso affetto. Zia Giulia”, era adagiato sul cofanetto di velluto blu che stringeva.
Arrivava direttamente da Venezia. Conteneva un raffinato diadema di alta bigiotteria impreziosito da gocce di vetro di Murano, che la bambina si sistemò entusiasta tra i capelli d’oro.
La piccola corona catturava la luce estiva e sul muro della stanza si scatenò un arcobaleno di colori. Carola, però, voleva vederne ogni dettaglio.
Si avvicinò alla specchiera fin quasi a sfiorare la superficie col nasino. Improvvisamente due braccia infantili uscirono dallo specchio, attraversandolo come un muro gelatinoso e inconsistente.
Così come si era ripromesso nelle interminabili notti di veglia, il riflesso ghermì i piccoli polsi della bambina, senza darle la possibilità di divincolarsi. Prima che la sua vittima potesse gridare, quelle braccia pallide e forti la trascinarono nel mondo dal quale si erano sporte.
A nulla valsero gli sforzi di Carola. Il vano tentativo di opporre resistenza puntando i piedini contro la cornice dello specchio, non fece altro che offrire al mostro dall’altra parte un valido appoggio sul quale arrampicarsi e fuggire.
Il riflesso oltrepassò il varco che il corpo della bambina aveva aperto esattamente un istante prima che si richiudesse, badando che Carola non lo seguisse.
Finalmente era libero.
La prima cosa che fece fu specchiarsi: aveva il vestitino bianco a fiori gialli,  le ballerine di raso in tinta e tra i capelli portava il diadema, esattamente come la bambina dall’altra parte. Carola a iniziò a battere disperatamente le mani dietro lo specchio, gridando senza riuscire a emettere alcun suono. Per tutta risposta il suo riflesso, che ora era una bimba vera, le sorrise in modo sinistro, accarezzando la  bambola di porcellana preferita della piccola umana.
Era identica a Carola, in tutto e per tutto. Stessa età, stessa statura, fisionomicamente perfetta. Tuttavia il riflesso che ora si spacciava per lei non aveva un’anima, nemmeno un brandello.
Bastava osservarlo abbastanza a lungo negli occhi vuoti per rendersene conto. Ma chi mai ci avrebbe fatto caso?
«Tesoro, i tuoi amici sono arrivati. È ora di tagliare la torta» annunciò la tata entrando nella stanza.
«Arrivo!» rispose il simulacro, facendo un’innocente riverenza.
Come ogni riflesso, ora Carola doveva sottostare alle regole del mondo speculare. Fece un bell’inchino, allargando i lembi della sua gonna a ruota.
«Quella mela non mi piace, non voglio più mangiarla» continuò. «Buttala via».
«D’accordo» affermò la governante in tono arrendevole, mettendosi il vassoio sull’avambraccio.
Carola vide il riflesso malvagio prendere per mano la tata, non destò alcun sospetto. Eppure quella donna l’aveva cresciuta, cullata nei giorni tristi, vestita, pettinata, ascoltata, curata, amata da quando ne aveva memoria. Come poteva non accorgersi che stava tenendo per mano un demone e non la sua piccola Carola?
Tutto andava secondo i piani della creatura. La falsa signorina Arnolfini uscì dalla stanza saltellando e si chiuse dietro la porta, senza degnare di uno sguardo la propria vittima.
Carola rimase  a contemplare dietro quel vetro ormai inattraversabile, tutti i suoi giochi e la spalliera dove si allenava costantemente per il saggio di danza.
Non aveva ancora idea di tutte le privazioni che l’attendevano nei mesi e negli anni a venire. Non sapeva che non avrebbe più potuto contare su nessun aiuto o conforto, perché i riflessi non comunicano tra loro, e  anche se due persone si abbracciano davanti al medesimo specchio, i loro riflessi interagiscono solo meccanicamente, senza alcuna emozione a muoverli. Non ci sono  sentimenti, dietro quelle fredde lastre. Non c’è amicizia, né amore, non si parla, non si danza. Si imita e basta, e si è soli per sempre.
Presto la buona Carola, prigioniera dello specchio, si sarebbe guastata. Sarebbe diventata il degno riflesso del suo riflesso, gelosa e astiosa. Avrebbe tramato contro di lui, così come l’impostora che adesso tagliava la torta e vestiva le sue gonne di taffetà aveva fatto per dieci lunghi anni.
Ma il riflesso di Carola sapeva, e non avrebbe mai fatto l’errore della bambina.
Per nulla al mondo, finché avrebbe avuto vita, si sarebbe mai avvicinato a uno specchio tanto da poterlo toccare.

il-riflesso-di-carola_specchio_horror_halloween

 

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Il regno dell’Effimera

31 sabato Ott 2015

Posted by Giorgia Penzo in Racconti

≈ 22 commenti

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31 ottobre, book, breve memoriale di una principessa negromante, dark, halloween, horror, il regno dell'effimera, mostri, orrore, racconti, racconto, scrittura, scrivere

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Affondare nel buio e ridere in faccia alla morte. Ma la Morte ride sempre per ultima. Un tuffo nell’interiorità di una ragazza che si risveglia e scopre di essere un mostro. O una dea?

Quale modo migliore per augurarvi un felice Halloween se non con un racconto dell’orrore? ♥
Pubblicato per la prima volta in ebook nel 2013 da Origami Edizioni, ve lo ripropongo qui nella sua versione integrale e rieditata [se preferite lo trovate anche su Wattpad e EFP!].

E se alla fine ne vorrete ancora, Breve memoriale di una principessa negromante potrebbe essere la vostra prossima lettura in salsa dark… :)


1.

Tentai di aprire gli occhi ma qualcosa di vischioso e raggrumato mi impediva di schiudere le ciglia.
Usai le dita per pulirmi. Staccai lentamente tutti i coaguli di sangue secco che mi annebbiavano la vista e che mi incollavano i capelli alla fronte. Ero ancora riversa sul tappeto con la guancia premuta sul telecomando. Alla tv un presentatore cercava di vendere a telespettatori dei tappeti di dubbia provenienza, degni del reparto occasioni di un grande magazzino.
Nonostante i sensi intorpiditi mi misi in ginocchio. La maglietta dei Led Zeppelin che portavo annodata in vita era completamente inzuppata di sangue. Soffocai un grido. Alzai la t-shirt con le dita tremanti e scandagliai ogni centimetro di pelle alla ricerca di una ferita. Niente.
La confusione che avevo in testa sparì quando mi girai verso il corridoio che dava sull’ingresso dell’abitazione. Il corpicino di Michael era immobile a pancia in giù. Un taglio profondo gli aveva reciso la colonna vertebrale, esposta e vivida nella pozza di sangue nero. Non osai avvicinarmi. Non ricordavo come e nemmeno perché, ma sapevo con certezza che ero io la responsabile. Un pessimo esordio da babysitter.
Feci mente locale: buio. Cercai nel passato, nelle ore in cui ero stata incosciente, ma non trovai alcun indizio a cui aggrapparmi. Io e Michael avevamo passato il pomeriggio da soli a guardare cartoni animati, su questo non ci pioveva. Non avevo fatto entrare nessuno in casa, se non il pony express della pizza che avevo ordinato per cena. Il pony express della pizza… Eppure non c’era traccia delle confezioni di cartone, né bicchieri di bibite gassate in giro.
Qualcosa non tornava. Avevo un’unica sicurezza: Michael era morto, ed ero stata io a ridurlo così.
Rimasi immobile alcuni istanti contando tutte le conseguenze del mio gesto inspiegabile. Persi il conto e mi alzai da terra, scattando come un corridore in una gara di staffetta. Arrancai fino al piano superiore ed entrai in bagno.
Buttai il viso sotto il getto del rubinetto e usai tutto il sapone liquido della boccetta, ma nonostante il mio impegno l’acqua che finiva nello scarico continuava a essere cremisi.
Afferrai l’asciugamano più grande che mi era capitato a tiro e ci affondai il volto. Sfregai, sfregai ancora più forte. Poi finalmente decisi di guardarmi allo specchio.
Indietreggiai sconvolta e rovesciai il cesto dei panni sporchi. L’odore di sudore stantio di alcune canottiere si mescolò al sentore metallico che mi avvolgeva.
Niente. Allo specchio non vedevo niente. Mi avvicinai alla specchiera toccandomi nervosamente il naso, gli occhi, la bocca, i capelli, che eppure sentivo tra le mani. Ma davanti a me non c’era il mio riflesso. Corsi nella camera degli ospiti, aprii l’armadio la cui anta destra fungeva da specchiera e mi ci misi davanti. Ancora niente.
Mi buttai giù dalla scalinata che avevo risalito poco prima. Ritornai nel salotto e rovistai nella borsetta alla ricerca dello smartphone. Rovesciai per terra tutto e finalmente lo trovai. Girai la fotocamera verso di me e mi scattai una fotografia, poi un’altra, poi un’altra ancora. Controllai nella memoria del telefono ma tutte e tre risultavano vuote. Si vedeva soltanto la parte della stanza dietro di me. E Michael sullo sfondo, immobile.
Accettai la situazione perché non poteva essere reale.
Rimisi nella borsetta gli oggetti che avevo sparso sul pavimento e raccolsi il golfino poggiato sul tavolo della cucina. I genitori di Michael non sarebbero rientrati prima della fine del weekend. Mi avevano pagata in anticipo promettendomi un extra una volta tornati. Immaginai che non sarebbero stati per nulla soddisfatti del mio servizio.
Spensi la televisione e abbandonai immediatamente la casa. Ragionavo con lucidità, pianificavo, mettevo in pratica. Dopo tutto quello che era successo, dopo tutto quello che non ricordavo, l’unico dettaglio che mi sconvolgeva era non provare nemmeno l’ombra di un senso di colpa.

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2.

Fuori faceva freddo, c’era la nebbia. Il venticello che avrebbe dovuto farmi venire la pelle d’oca non mi dava fastidio.
Camminai mezzora seguendo la strada principale e non incontrai nessuno. Ero esausta e con i vestiti ancora fradici di sangue per colpa dell’umidità. L’alba incombeva.
«Presto sarà tutto finito» sussurrai. «Mi sveglierò nel mio letto, o in quello di qualcun altro. Mi preparerò la colazione o un dopo sbronza, non importa. I brutti sogni spariscono con i primi raggi del sole».
Ma quando i primi raggi arrivarono, l’incubo cominciò a prendere forma.
La pelle iniziò a prudermi, diventò bollente, gli occhi presero a lacrimare senza controllo. Mi portai un braccio davanti al viso nel tentativo di proteggermi. Avvertii una tremenda sensazione di bruciore fino alla spalla e poi la nausea si impadronì di me. Barcollai. E nel momento in cui lasciai ciondolare il braccio verso l’asfalto mi resi conto che non erano lacrime quelle che mi bagnavano le guance. Era sangue. Il mio sangue.
Mi spostai dalla strada e presi una scorciatoia attraverso un giardino fino ad arrivare a una vecchia autorimessa. Camminai nelle zone buie create dalle montagne di macchine accatastate ma ormai il sole si era staccato dall’orizzonte e il caldo si faceva sempre più opprimente.
“Presto sarà tutto finito” pensai.
Sotto una tettoia scorsi un cassonetto dell’immondizia che puzzava di birra fermentata e cibo marcio. Non avevo scelta. Lo aprii senza sforzo e mi ci gettai dentro, richiudendolo con un tonfo. Lo strano bruciore sulla pelle si attenuò quasi all’istante e un’irresistibile spossatezza mi colpì come una mazzata alla base del collo.
Crollai in un angolo, impotente e sudicia, come un rifiuto in attesa di essere smaltito.

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3.

Mi risvegliai nella stessa posizione in cui mi ero addormentata e dal tanfo intuii che dovevo trovarmi ancora nel cassonetto dell’immondizia. Mi arrampicai sui sacchi, sollevai il coperchio abbastanza da ricavarne uno spiraglio e mi guardai intorno con circospezione.
Era di nuovo notte.
Uscii. Gironzolai nelle vicinanze fino ad arrivare davanti alla stamberga che doveva fungere da ufficio dell’autorimessa. Fuori c’era un distributore di bibite acceso e funzionante. Avevo così tanta sete da non riuscire più a deglutire, eppure nessuna di quelle lattine ghiacciate mi faceva venir voglia di cercare qualche moneta da inserire nella macchinetta.
Mi soffermai a osservare la superficie in acciaio lucido che la rivestiva: rifletteva tutto tranne me. Un sorriso amaro mi tagliò in due il viso. Stavo iniziando a farci l’abitudine.
Abbassai il mento e mi guardai la maglietta ormai irrigidita dal sangue essiccato. Il logo del gruppo rock era seppellito sotto la chiazza scura e probabilmente non sarebbe riemerso mai più.
Qualcosa, forse l’istinto, si sostituì alla mia volontà. Sollevai un lembo e lo annusai, poi lo misi tra le labbra cercando di sciogliere i grumi con la saliva. L’idea di quello che stavo facendo smise di disgustami quando la melma che raschiavo con avidità dalla trama lisa della t-shirt cominciò a donarmi un innaturale sollievo.
Un fruscio proveniente dal boschetto vicino al rimessaggio mi mise in allarme. Mi nascosi dietro al distributore automatico, sporgendomi appena da un lato per vedere cosa stava succedendo.
Una clochard sbucò da un cespuglio con ancora parte dei pantaloni calati. Si risistemò con cura, come se fosse appena uscita dalla toilette delle signore, e si avviò per la strada con un carrello della spesa carico delle sue poche cose.
Fu di nuovo l’istinto a muovermi.
La seguii fino al limite della periferia poi, quando decisi che era il momento, mi avvicinai a lei senza farmi notare. La attaccai alle spalle con sicurezza come se fosse stato un rituale compiuto ormai per la millesima volta. Lei provò a opporsi, invano. Le strinsi una mano attorno alla gola piccola e unta fino a penetrarla con le unghie. La mia forza mi sorprese.
Nessun urlo, nessuno spettatore. Afferrai il cadavere per i piedi e lo strascinai in un vicolo poco distante. Non feci domande a me stessa, non cercai di resistere. Bevvi il sangue dalla ferita fino a vomitarlo, poi ricominciai da capo. Lo respirai, perfino. Una volta piena mi sdraiai supina a fianco della salma arida e fissai il lampione che con intermittenza dava e toglieva luce alla stradina cieca.
Mi concessi qualche minuto prima di rovistare tra gli effetti personali della vagabonda. Trovai una maglia nera a maniche lunghe che non aveva mai indossato e un paio di pantaloni verde militare. Mi ripulii, mi cambiai e mi pettinai i capelli all’indietro. Curiosai ancora. In una cassetta d’alluminio che in passato aveva contenuto biscotti al burro da discount c’era uno specchietto tascabile con una crepa che lo tagliava in mezzo.
«Non potersi guardare allo specchio aiuta» constatai.
Tra le cianfrusaglie trovai un coltello a serramanico. Aveva una bell’impugnatura in osso ma la lama era ossidata e consunta. Anche se la punta era scheggiata scommisi con me stessa che il suo lavoro lo avrebbe fatto ugualmente. Forse con addirittura più brutalità. Mi alzai la maglia e strinsi l’arma con entrambe le mani.
«Presto sarà tutto finito».
Mi trafissi la pancia affondando il pugnale fino all’elsa. Soffocai un grido e un’imprecazione mentre una fitta lancinante mi piegò le gambe. Estrassi il coltello dalla carne e lasciai che cadesse a terra con un tintinnio. In quell’istante percepii il sangue della donna farsi strada tra le mie vene. Non sentivo più dolore. In nemmeno dieci secondi il taglio si rimarginò senza lasciare cicatrici.
L’incubo era diventato un sogno.
Mi sentii potente, vincente, euforica, furba, imbattibile, superba, immortale. Ballai sul selciato insanguinato a ritmo dello scolo della grondaia inchinandomi infine alla mia ombra sul muro, l’unica parte di me che mi era rimasta.
Lasciai il cadavere ai topi e al suo destino, avviandomi verso il mio. Sentivo il sangue che mi parlava e che mi chiedeva di essere felice. Mi chiedeva di non avere rimorsi. Ero la principessa di un reame di morte, nessuno avrebbe potuto contrastarmi. Vestivo una corona invisibile, la notte era il mio trono. Avrei preso chi volevo, quando lo volevo, nel modo che desideravo e fin quando ne avrei avuto voglia.
Una voce maschile dietro di me arrestò bruscamente la mia marcia trionfale.
«Lasci tracce dappertutto, bambina» mormorò.
Nell’attimo in cui provai a girarmi per fronteggiarla, una lama sottile mi sbucò dal petto all’altezza del cuore.
«Neonati e orfani» lo sentii brontolare, «che dannata seccatura».
Rovinai a terra come un manichino urtato da un passante. Non riuscivo a muovermi né a reagire. Il sangue non mi parlava più. Con la coda dell’occhio vidi la mia mano avvizzire lentamente, dalla punta delle dita via via sempre più giù. Osservai il tatuaggio dell’Efemerottero che avevo sul dorso vicino all’attaccatura del pollice.
La pelle si era rinsecchita a tal punto da confonderne le linee e i dettagli; ora era solo un disegno indistinguibile, una macchia nera senz’anima. Come me. Eppure una volta era stato un bel tatuaggio; una stilizzata rielaborazione di un crudele mistero della natura, così come io ero stata una brava ragazza.
«Un regno breve» bisbigliai a fatica con sadica ironia, prima di percepire con piena coscienza il mio corpo dissolversi nel vento.

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Giorgia Penzo, emiliana, ha l'anima un po' incastrata nel passato. Ama il cinema, la mitologia e scappare a Parigi alla prima occasione. È autrice di "Ogni giorno come il primo giorno" (Editrice Nord) e "Il custode di Elias" (Il Battello a Vapore).

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