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Colei che porta la vittoria

23 lunedì Mar 2020

Posted by Giorgia Penzo in Racconti

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Tag

berenice, colei che porta la vittoria, fantasy, leggere, letture, mitologia, racconti, racconto

Immaginate un futuro alternativo dove le ninfe acquatiche hanno conquistato il mondo, condannando il genere umano all’estinzione a causa di un’antica profezia.
Questo è Colei che porta la vittoria, il mio racconto post apocalittico, fantasy, ispirato alla figura mitologica di Berenice e la sua chioma contenuto nell’antologia “FATE – Storie di terra, fuoco, acqua e vento” edito da I Doni delle Muse.
Nella speranza di tenervi compagnia in questi giorni da passare a casa, da oggi è disponibile integralmente anche sul blog e sul mio profilo Wattpad.
Lady Of The Sea di Seth Lakeman è la canzone che mi ha ispirato. 🌊

Buona lettura!

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«Era il 6 maggio 1889 quando durante l’Esposizione Universale a Parigi avevano risalito la Senna e si erano presentate al Campo di Marte come le nuove mentori dell’umanità. Ci dissero di essere venute in pace, ma le loro parole suadenti e benevole valsero per una manciata di estati. Quando ci rendemmo conto che il loro unico obiettivo era quello di sterminarci, ormai era troppo tardi. L’umanità – che secondo i loro oracoli presto o tardi avrebbe distrutto il pianeta e condannato ogni creatura alla medesima fine – doveva essere annientata, in modo da scongiurare l’avverarsi della profezia.
Si presentarono a noi in un momento delicato. La tecnologia stava facendo passi da gigante, macchine volanti e fotografie in movimento albergavano in un futuro che ormai vedevamo prossimo. Ma le streghe dell’acqua – così le ribattezzammo – ci colpirono con un’arma che non potevamo contrastare, così antica che noi figli del progresso l’avevamo
accantonata tra i poemi epici e le leggende medievali: la magia.
Le prime vittime furono gli uomini. Ammaliati dalle bellissime vergini dalle caviglie sottili, molti morirono affogati nel tentativo di raggiungerle. Altri scelsero di togliersi la vita, pazzi di un amore mai corrisposto. Le armate delle Idriadi avvolsero la terra come i tentacoli di una piovra, senza lasciarci scampo: le Potameidi nei fiumi, le Limniadi nei laghi, le Eleadi nelle paludi e le Nereidi nel mare.
Riuscimmo a sconfiggere le ninfe delle acque dolci dragando i corsi d’acqua o facendoli evaporare, ma le Nereidi erano troppo numerose e l’oceano troppo vasto. I mostri da loro evocati distrussero ogni città sul loro cammino, provocando onde anomale che cancellarono intere regioni in pochi istanti: Scilla e Cariddi annientarono mezza Europa,
Umibozu seminò il panico in Estremo Oriente, Carcino e l’Idra distrussero il Medio Oriente, lku-Turso devastò l’estremo nord mentre Unktehila sommerse le Americhe.
Accecati dall’impotenza, scatenammo un massiccio effetto serra. Riscaldammo l’atmosfera e le acque del mare, con la speranza di alterarne il metabolismo al fine di renderle più deboli, ma loro si rifugiarono nelle gelide profondità degli oceani e noi ci condannammo con le nostre stesse mani. Nel giro di un anno morì il 99% della popolazione mondiale e ogni pianta, animale ed essere terrestre fu cancellato dall’Abisso che l’uomo stesso aveva creato.
Ci hanno insegnato che tutto è già stato stabilito da sempre e che nessuno può fuggire dal proprio destino. Ebbene, la chiaroveggenza delle Idriadi invece di salvare il pianeta causò la guerra che l’avrebbe consumato. Nonostante questo, le ninfe non smisero di cacciarci. Anzi. Divennero, se possibile, più agguerrite. La poca terraferma, ormai sterile, rimasta libera dall’acqua venne velocemente abbandonata. Le più grandi menti scampate al massacro idearono prima enormi mongolfiere e in seguito grandi chiatte volanti – alimentate a energia solare, eolica e poi con motori ad acqua – sulle quali accogliere i sopravvissuti. Giù, tra le onde insidiose, veleggiavano solo le navi degli eroi che combattevano per ridare la terra agli umani.
Iniziammo ad abituarci a rivolgerci al cielo come alla nostra nuova casa. Il mondo così come lo conoscevamo era scomparso. Gli uomini erano scomparsi.
Come in una sorta di macabra coincidenza, anche le creature del mare erano tutte femmine: alla stregua di alcuni tipi di pesci, al bisogno, organismi partenogenetici e indipendenti. Così anche noi, studiandole accuratamente, grazie alla tecnologia biomedica e senza nessun’altra alternativa, imparammo ad autoriprodurci. L’umanità, dopo quasi un secolo di guerra, era rappresentata da qualche migliaio di donne nate e cresciute con un unico scopo: liberare la terra dalle streghe dell’acqua.
In questo giorno, 6 maggio 2089, mattina del bicentenario dell’Approdo, noi siamo le ultime guerriere, le vendicatrici e l’unica speranza per il genere umano. Gea è l’ultimo vascello rimasto. Abbiamo sterminato ogni singola strega con le squame e i loro maledetti mostri. Manca soltanto l’ultima Nereide, Anfitrite, e il suo pugno di ancelle. Non abbiamo iniziato noi questa guerra, ma noi – e vi do la mia parola – la finiremo. Oggi è la resa dei conti. Se le uccidiamo,mforse, fra qualche secolo, quando le acque si saranno completamente ritirate, le nostre figlie potranno rifondare l’umanità. Ma fino ad allora, sotto lo stendardo del Matriarcato e al mio comando, Sorelle, noi combatteremo!».
Applausi e grida d’incitamento si levarono dalla prua alla fine del lungo monologo e decine di feluche volarono in alto, rimbalzando sulle vele spiegate. Era una bellissima giornata di primavera senza alberi in fiore e senza risate di bambini.
«Ottimo discorso» sussurrò il nocchiero sistemando l’armatura di oricalco al Capitano.
«Speriamo sia l’ultimo, signorina Liard».

***

Berenice Aryen aveva venticinque anni, era capitano di vascello da sette e come la sua intera ciurma non aveva mai attraccato a un porto o fatto scalo in un continente. Su di lei giravano molte voci che le donne dell’equipaggio si divertivano ad arricchire, alimentate dalla solitudine e dal silenzio delle notti per mare.
Si diceva che il fatto che non si fosse mai tagliata la lunga chioma – dello stesso colore della terra che non aveva mai visto – facesse parte di un voto che aveva stipulato lei stessa, in modo cosciente, al momento della sua nascita. Si diceva che i suoi occhi azzurri e lucenti fossero diventati di quel colore a forza di scrutare l’orizzonte senza sosta, a caccia della prossima preda, e che nel suo nome fosse nascosta l’Ultima Profezia.
Soltanto una cosa era certa e di dominio pubblico: Berenice era l’unica creatura vivente concepita da uno degli ultimi uomini e una strega dell’acqua. Anche se era stata cresciuta, orfana, dalle balie delle Flotte Celeste come tutte le altre bambine, Berenice conservava il suo retaggio nel profondo. Fuori non lasciava trasparire nulla. Il suo aspetto era quello di un’umana comune, seppure straordinariamente
attraente.
La madre però, prima di abbandonarla su uno scoglio, non poteva sapere di averle trasmesso qualcosa che apparteneva soltanto al popolo stregato del mare: nel sangue rosso della ragazza scorreva la stessa magia delle streghe pesce dal sangue blu.
Berenice era la miglior arciera di tutta la Flotta Celeste. La sua bravura era tale che nessun arco costruito dagli umani era riuscito a soddisfarla e a resistere, negli anni, alla sua insaziabile voglia di perfezionarsi. Così, attraverso la magia posta al servizio delle sue Sorelle, Berenice aveva creato un prodigioso arco di corallo rosso che soltanto lei poteva evocare e tendere.
Chi fosse in realtà Berenice restava un mistero. Comandava trecento anime come se fossero una sola e il suo scopo – così come le era stato ordinato dalle tre Matriarche che governavano le Flotte Celesti – eraquello solcare l’Iride, l’unico oceano, e scovare le Idriadi rimaste ovunque si trovassero. Berenice era lo sceriffo del mare, manteneva l’ordine, agognava alla pace. E dopo anni di traversate sul suo vascello di quarto rango, quella pace, quella fine così vicina, era l’unica cosa per la quale avrebbe immolato se stessa e le sue ragazze.
Mentre ancora la ciurma scherzava e commentava il discorso del Capitano, il vento cessò di soffiare. Ogni rumore parve tacere, il mare divenne una tavola e in lontananza ombre veloci saettarono, fendendo l’acqua a un pelo dalla superficie.
«Arrivano!» strillò la vedetta, indicando in direzione sud-sud-ovest.
«Pronte con i fucili a impulsi elettrici e preparate gli scudi deflettori della carena» ordinò il Capitano, ascoltando le sue direttive diffondersi di bocca in bocca per tutta la nave.
Il vascello cominciò a dondolare, prima in modo impercettibile, poi sempre più forte come se delle onde invisibili premessero dal fondo.
Berenice puntò l’indice davanti a sé e, bisbigliando parole incomprensibili, tracciò nell’aria un semicerchio. Fece un passo indietro, chinò la testa e alzò le mani sopra il capo senza smettere di sussurrare. Come uscito da un chiarore evanescente, l’arco le si
materializzò tra le mani.
«Signorine!» urlò, conquistando l’attenzione di tutto l’equipaggio. «È inutile che vi metta ancora in guardia su queste creature, ma lo farò ugualmente. Non voglio perdere nessuna di voi, non oggi».
Il Capitano afferrò una cima per contrastare l’oscillazione che via via si faceva più minacciosa. «Hanno l’aspetto di eterne e bellissime ragazzine, ma il loro fascino è secondo solo alla loro perfidia. Non abbiate pietà di loro perché loro non ne avranno di voi. Non guardatele negli occhi o vi ammalieranno con i loro poteri. Non fatevi mordere né graffiare o vi avveleneranno. Ricordate che sono streghe degli abissi e che, se vogliono, possono camminare sulla superficie dell’acqua. Non fatevi trovare impreparate, prestate attenzione alle loro alabarde magiche e ricordate, la loro stregoneria non è invincibile: se restano fuori dall’acqua per troppo tempo, soffocano. Ho preso da loro tutto quello che mi serviva: io sono umana e una Sorella. La mia magia è vostra. Voglio il ponte della nave tappezzato di Nereidi, mi sono spiegata?».
«Sì, Capitano!» risposero in coro, prendendo ciascuna la propria posizione. «Viva la Strega Umana, colei che porta la vittoria! Vinceremo!».
«E che la Dea ci protegga» pregò Berenice, incoccando una freccia.
Un colpo sordo scosse il vascello, facendolo ondulare pericolosamente come se fosse stato preda di una tempesta sottomarina. Le alabarde delle streghe avevano colpito i deflettori subacquei dello scafo, causando una fragorosa onda d’urto. Improvvisamente decine di ninfe uscirono dall’acqua e si catapultarono sul ponte, ingaggiando una lotta corpo a corpo con le guerriere della Gea.
La resistentissima armatura biancastra che indossavano – opera delle streghe maniscalco – lasciava una scia caliginosa a ogni loro movimento e conferiva alle Nereidi un aspetto spettrale. La loro pelle liscia, grigia come quella di un delfino, era screziata di squame cangianti e variopinte sugli zigomi, i polsi, i polpacci e la pinna caudale. Tra i capelli lunghi, raccolti in ricercate acconciature, s’intravedevano fili di perle intrecciati insieme con maestria. Erano bipedi, con le dita delle mani e dei piedi palmate. La coda, lunga e affusolata, veniva avviluppata sul ventre quando non si trovavano nel loro elemento naturale. I grandi occhi neri non avevano palpebre ma erano coperti solo da una membrana trasparente simile a quella dei pesci. Agili, magre e dotate di una destrezza disarmante anche fuori dall’acqua, comunicavano tra di loro attraverso suoni, click e pulsazioni indecifrabili per l’orecchio umano.
Era iniziata l’ultima lotta, la battaglia decisiva. Le grida, le imprecazioni, i pianti, gli incitamenti e le suppliche rimbombavano sul mare immobile e spettatore. Dopo poco, mentre l’azzurro del cielo si sporcava di nuvole candide venute da est, il cobalto del mare iniziò a venarsi di porpora.
Berenice distolse lo sguardo dal suo bersaglio. Strinse l’arco finché il palmo della mano non le dolse e nel frattempo cercò di fare il punto della situazione. Femmine contro femmine, una carneficina per una profezia. Quando i fucili elettrici riuscivano a fare breccia nelle solide armature, fulminavano le ninfe quasi sciogliendole. Le alabarde magiche aprivano ferite incurabili nelle carni delle giovani umane e alcune di loro, sedotte dallo sguardo delle streghe, si puntavano il fucile alla tempia e facevano fuoco.
Il sangue delle due specie aveva trasformato il ponte della nave in una pozza di melma violacea. A terra non si contavano i cadaveri, così come a fianco della nave. Rivolti a faccia in giù, molti corpi galleggiavano esanimi alla mercede delle onde. Fortunatamente per le donne della Gea, il manipolo di Nereidi stava a poco a poco perdendo l’assedio. Ridotte allo stremo, braccate per tutto l’oceano in modo da non permettere loro di riprodursi, erano poche e votate all’estremo sacrificio. La strega che le comandava non avrebbe mai permesso loro di tornare sconfitte, pena una morte tra le più cruente. Legate con alghe incantate ai pochi scogli di terra emersa, sarebbero state condannate a soffocare e a marcire al sole, come monito. Ma ormai – e Anfitrite lo sapeva – non c’erano più ninfe da spaventare o irretire; tanto valeva immolarle tutte. Le sue ancelle combatterono per ore senza accennare una ritirata fino a che, trapassata da una freccia scoccata dal Capitano, anche l’ultima di loro non chiuse gli occhi per sempre.
Nessuno sulla nave ebbe il coraggio di acclamare il trionfo. Berenice volse gli occhi azzurri sulla linea dell’orizzonte e, dopo anni d’inseguimenti, incontrò i suoi, quelli della regina del mare, cupi come le notti senza stelle.

***

Anfitrite era in piedi sul pelo dell’acqua, con gli interminabili capelli neri che sfioravano appena la superficie. Portava un’armatura in zanna di narvalo – impreziosita da bracciali e schiniere di smeraldo, a sottolineare il suo status – e stringeva tra le mani uno scettro d’oro.
«Anfitrite!» gridò Berenice, mostrandole con un gesto della mano la strage che si era appena consumata sul vascello. «Le tue serve sono morte. Non hai più figlie, non hai più nessuno. Arrenditi».
La strega avanzò lentamente sull’acqua, fermandosi a pochi metri da dove il Capitano le aveva parlato. «Potrei sparire nei fondali e tornare tra un secolo con altre Nereidi» insinuò, sorridendo in modo diabolico.
«Ed io sarei pronta a darti la caccia per altri cent’anni» replicò Berenice, risoluta.
«Lo so. Per questo ti lancio una sfida: combatteremo tu ed io, al primo sangue. La prima che colpirà l’altra ne deciderà il destino».
Dall’alto del ponte di comando, coperta dalle sue più fidate ufficiali, Berenice pensava. Pensava a come poterle salvare, a come salvarsi, a come salvare la terra che non aveva mai visto.
«Dove, quando e con quali armi?» domandò Berenice.
Anfitrite fece qualche passo indietro increspando la superficie dell’oceano, poi si profuse in un inchino sinistro. «Adesso, su questo specchio d’acqua. Con le spade del nostro popolo».
«Il mio popolo sono gli umani».
«Sei anche una strega, per quanto tu possa detestarlo».
Berenice percorse l’arco di corallo con il dito, dalla punta di un flettente all’altro e questo si dissolse in spuma di mare. «Accetto» decretò.
La Gea piombò nel silenzio. I visi delle guerriere ancora imbrattati di sangue blu si rincorrevano con lo sguardo, cercano una qualche risposta sui volti delle più alto in grado. Le parole erano di troppo, lo sapevano tutte. La decisione era stata presa. Con un cenno del capo, Berenice salutò la ciurma: fanciulle, donne anziane, femmine che avrebbero voluto essere madri e non combattenti, le sue orfane.
«Se non torno, siate padrone della vostra vita».
Il Capitano scivolò lungo una cima fino ad atterrare sull’acqua con una gamba sola. Ne saggiò la portata e infine lasciò la corda, rimanendo perfettamente in piedi. La superficie si deformò appena sotto il suo peso, alla stregua di un pavimento morbido. Raggiunse Anfitrite camminando con eleganza e sicurezza, mentre in sottofondo i brusii increduli delle sue ragazze impregnavano l’aria.
Forse per la prima volta nella vita si rese conto che, sebbene il suo aspetto fosse umano, la magia faceva parte di lei e mai avrebbe potuto rinnegarla. Anfitrite lasciò cadere lo scettro e le porse una delle spade gemelle che portava legate alla cintura di conchiglie.
«Sono state forgiate nelle fucine degli abissi, con le ossa dei mostri che da tempo immemorabile solcano i fondali di questo mondo».
Berenice l’afferrò senza esitazione. L’impugnatura d’argento fregiato tratteneva una lama bianchissima, affilata come un rasoio. Era leggera e mortale come solo un’arma magica poteva essere.
«Al primo sangue?» chiese Berenice mettendosi in guardia.
Anfitrite le rispose con un sorriso spavaldo. Non perse tempo e, con una celerità impressionante, corse verso Berenice facendole quasi perdere l’equilibrio. Quando si scontravano, le lame letali producevano un suono sordo, irreale. La Nereide ogni tanto spariva sott’acqua per riprendere fiato. La si vedeva abbandonarsi tra i flutti e lasciare che la magia svanisse da lei per un istante, giusto il tempo di lasciarla affondare. Riemergeva veloce e vorace, più di uno squalo, cercando in tutti i modi di cogliere alla sprovvista Berenice che sembrava tenerle testa con difficoltà.
Erano molti i colpi a vuoto sulle armature: sia quella della ninfa sia quella del Capitano erano state forgiate da mani eccelse. Ma in Berenice bruciava una forza interiore che non la lasciava desistere. Su di lei pendeva il futuro delle ultime umane. Se avesse perso, tutto sarebbe andato in eredità alle streghe che con gli anni Anfitrite avrebbe generato. Un pianeta disabitato, con un oceano infestato da ninfe fameliche. Ecco l’oscuro destino all’orizzonte. E il genere umano sarebbe rimasto solo una reminiscenza, nascosta per sempre nelle biblioteche sommerse.
Con un’agile mossa Berenice bloccò un fendente di Anfitrite che, se fosse andato a segno, avrebbe messo fine alla partita. Impugnò la spada e contrattaccò, cercando un varco nell’armatura smeraldina della ninfa. Lo scambio di colpi fu rapido e feroce e quando Berenice riguardò la sua spada, vide che era sporca di blu. Anfitrite era inginocchiata sul
pelo dell’acqua e con la mano si teneva la gamba sinistra. Da sotto le dita palmate il sangue sgorgava copioso, imbrattando come inchiostro la superficie del mare.
«Onora la tua parola» tuonò Berenice.
La Nereide strillò così forte che il Capitano dovette arretrare di qualche passo e la spada che aveva in pugno si polverizzò in finissima sabbia bianca. «Mai! Gli umani non si meritano questo mondo!».
La strega del mare s’immerse e senza che Berenice avesse il tempo di capire, o fuggire, Anfitrite riaffiorò con un tridente tra le mani. «Come hai osato? Non permetterò alla bastarda di una delle mie figlie di asservirmi. Non mi piegherò alla tua volontà, Strega Umana!».
Accecata dall’ira, la regina delle Nereidi cominciò ad attaccare la ragazza con l’intenzione di porre fine alla sfida. Con il tridente era più agile e Berenice, disarmata, non poteva fare altro che tentare di schivare i suoi colpi letali e sopravvivere in attesa di un’idea. Con un rapido movimento del polso squamoso, Anfitrite colpì il Capitano al fianco obbligandola carponi sullo specchio dell’Iride. La ninfa iniziò a vorticare il tridente ai suoi piedi e l’acqua si mise a ribollire in modo inquietante.
«Presto saremo insieme nel buio dell’abisso» sogghignò.
Dal mulinello che aveva creato uscirono due possenti cavalli d’acqua, con criniere e coda di schiuma e zoccoli di dura roccia arenaria. I due simulacri iniziarono a galoppare minacciosi verso Berenice, la quale aveva ancora il viso a pochi centimetri della superficie marina. La ragazza si riflesse in quegli stessi flutti che l’avevano risparmiata tanti anni fa, quando la madre aveva deciso di affidarla al suo destino.
L’oceano le apparteneva. L’aveva salvata una volta e l’avrebbe aiutata di nuovo, in questo confidava. Prese coraggio e non attese oltre. Disegnò nell’aria davanti a sé una mezzaluna e subito l’arco di corallo le apparve tra i palmi insanguinati. Infilò una mano sott’acqua e, senza smettere di fissare la Nereide degli occhi vitrei, recitò una formula incomprensibile. Lo fece adagio, come se né la fretta né la paura albergassero più nel suo spirito. Un attimo prima che le creature evocate da Anfitrite la schiacciassero, Berenice estrasse dalle onde una freccia di madreperla, la incoccò e la scagliò verso la strega pesce. Vedendo le bestie a poche falcate da lei si coprì il volto con le braccia, ma i due destrieri la investirono nella forma di milioni di gocce salmastre. La freccia perlacea aveva colpito il cuore di Anfitrite, rompendo il sortilegio a un passo dalla fine. La strega osservò per qualche secondo il suo busto trafitto. Non un rantolo, non un sospiro uscirono dalla bocca contorta. Poi, come alla fine di un incubo, reclinò la testa all’indietro e s’inabissò senza vita nella sua tomba d’acqua.

***

La Gea esplose nel più festoso degli applausi e l’entusiasmo carpì ciascun’anima superstite, da quella del mozzo a quella del comandante in seconda. Tutti i sacrifici delle persone che avevano dato la vita nella guerra contro le ninfe avevano trovato un senso. Era finita. Dopo duecento anni, si poteva tornare a sperare.
«Contattate le Flotte Celesti» ordinò Berenice una volta salita a bordo. «Dite loro che non ci sono più streghe».
«Mi permetto di dissentire, Capitano». Caenne Liard l’affiancò, prendendole la mano che non impugnava l’arco. «Ce n’è ancora una ed è nostra sorella» dichiarò, alzandole il braccio al cielo in segno di vittoria. L’equipaggio esplose in un fragore alla vista del sorriso commosso di Berenice Aryen.
Il Capitano, ancora dolorante, si diresse a prua stringendo tra le mani un pugnale rituale. L’aveva celato per anni in un panno di velluto rosso, tra l’armatura e l’uniforme, in attesa del momento opportuno. Arrivata all’estremità massima, si sporse un poco dalla balaustra azzittendo in un attimo la ciurma intenta a osservarla.
«La liberazione è giunta, il mio voto è sciolto». Berenice rinsaldò la presa del coltello, afferrò la sua chioma e la tagliò di netto sopra le spalle. «Che ora si onori il patto magico che unì mia madre, figlia dell’acqua, a mio padre, figlio della terra».
Legò la matassa di capelli attorno a un’umile freccia di legno trovata nella sua faretra e la scagliò in mezzo al mare con l’arco incantato, così lontano che le sue compagne non la videro affondare. Le donne dell’equipaggio erano ancora ammutolite quando, con un rumore assordante, le acquee all’orizzonte cominciarono a gorgogliare. Alla vista di quello che stava accadendo, sul ponte della Gea si scatenò il panico: dalle profondità degli abissi i capelli di Berenice erano riemersi, trasformandosi in una lunga lingua color ocra dalle colline rigogliose.
«Terra! Terra!» gridò la vedetta, sbracciandosi a tal punto da rischiare di cadere di sotto.
Le ragazze iniziarono ad abbracciarsi, a piangere, a impazzire di gioia. Ci fu chi rimase smarrita, chi incredula e chi, invece, ringraziò l’invisibile.
«Contattate le Flotte Celesti» dispose Berenice con un filo di voce, persa in una felicità che non faceva parte di alcun mondo conosciuto. «Dite loro che torniamo a casa».

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Il regno dell’Effimera

31 sabato Ott 2015

Posted by Giorgia Penzo in Racconti

≈ 22 commenti

Tag

31 ottobre, book, breve memoriale di una principessa negromante, dark, halloween, horror, il regno dell'effimera, mostri, orrore, racconti, racconto, scrittura, scrivere

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Affondare nel buio e ridere in faccia alla morte. Ma la Morte ride sempre per ultima. Un tuffo nell’interiorità di una ragazza che si risveglia e scopre di essere un mostro. O una dea?

Quale modo migliore per augurarvi un felice Halloween se non con un racconto dell’orrore? ♥
Pubblicato per la prima volta in ebook nel 2013 da Origami Edizioni, ve lo ripropongo qui nella sua versione integrale e rieditata [se preferite lo trovate anche su Wattpad e EFP!].

E se alla fine ne vorrete ancora, Breve memoriale di una principessa negromante potrebbe essere la vostra prossima lettura in salsa dark… :)


1.

Tentai di aprire gli occhi ma qualcosa di vischioso e raggrumato mi impediva di schiudere le ciglia.
Usai le dita per pulirmi. Staccai lentamente tutti i coaguli di sangue secco che mi annebbiavano la vista e che mi incollavano i capelli alla fronte. Ero ancora riversa sul tappeto con la guancia premuta sul telecomando. Alla tv un presentatore cercava di vendere a telespettatori dei tappeti di dubbia provenienza, degni del reparto occasioni di un grande magazzino.
Nonostante i sensi intorpiditi mi misi in ginocchio. La maglietta dei Led Zeppelin che portavo annodata in vita era completamente inzuppata di sangue. Soffocai un grido. Alzai la t-shirt con le dita tremanti e scandagliai ogni centimetro di pelle alla ricerca di una ferita. Niente.
La confusione che avevo in testa sparì quando mi girai verso il corridoio che dava sull’ingresso dell’abitazione. Il corpicino di Michael era immobile a pancia in giù. Un taglio profondo gli aveva reciso la colonna vertebrale, esposta e vivida nella pozza di sangue nero. Non osai avvicinarmi. Non ricordavo come e nemmeno perché, ma sapevo con certezza che ero io la responsabile. Un pessimo esordio da babysitter.
Feci mente locale: buio. Cercai nel passato, nelle ore in cui ero stata incosciente, ma non trovai alcun indizio a cui aggrapparmi. Io e Michael avevamo passato il pomeriggio da soli a guardare cartoni animati, su questo non ci pioveva. Non avevo fatto entrare nessuno in casa, se non il pony express della pizza che avevo ordinato per cena. Il pony express della pizza… Eppure non c’era traccia delle confezioni di cartone, né bicchieri di bibite gassate in giro.
Qualcosa non tornava. Avevo un’unica sicurezza: Michael era morto, ed ero stata io a ridurlo così.
Rimasi immobile alcuni istanti contando tutte le conseguenze del mio gesto inspiegabile. Persi il conto e mi alzai da terra, scattando come un corridore in una gara di staffetta. Arrancai fino al piano superiore ed entrai in bagno.
Buttai il viso sotto il getto del rubinetto e usai tutto il sapone liquido della boccetta, ma nonostante il mio impegno l’acqua che finiva nello scarico continuava a essere cremisi.
Afferrai l’asciugamano più grande che mi era capitato a tiro e ci affondai il volto. Sfregai, sfregai ancora più forte. Poi finalmente decisi di guardarmi allo specchio.
Indietreggiai sconvolta e rovesciai il cesto dei panni sporchi. L’odore di sudore stantio di alcune canottiere si mescolò al sentore metallico che mi avvolgeva.
Niente. Allo specchio non vedevo niente. Mi avvicinai alla specchiera toccandomi nervosamente il naso, gli occhi, la bocca, i capelli, che eppure sentivo tra le mani. Ma davanti a me non c’era il mio riflesso. Corsi nella camera degli ospiti, aprii l’armadio la cui anta destra fungeva da specchiera e mi ci misi davanti. Ancora niente.
Mi buttai giù dalla scalinata che avevo risalito poco prima. Ritornai nel salotto e rovistai nella borsetta alla ricerca dello smartphone. Rovesciai per terra tutto e finalmente lo trovai. Girai la fotocamera verso di me e mi scattai una fotografia, poi un’altra, poi un’altra ancora. Controllai nella memoria del telefono ma tutte e tre risultavano vuote. Si vedeva soltanto la parte della stanza dietro di me. E Michael sullo sfondo, immobile.
Accettai la situazione perché non poteva essere reale.
Rimisi nella borsetta gli oggetti che avevo sparso sul pavimento e raccolsi il golfino poggiato sul tavolo della cucina. I genitori di Michael non sarebbero rientrati prima della fine del weekend. Mi avevano pagata in anticipo promettendomi un extra una volta tornati. Immaginai che non sarebbero stati per nulla soddisfatti del mio servizio.
Spensi la televisione e abbandonai immediatamente la casa. Ragionavo con lucidità, pianificavo, mettevo in pratica. Dopo tutto quello che era successo, dopo tutto quello che non ricordavo, l’unico dettaglio che mi sconvolgeva era non provare nemmeno l’ombra di un senso di colpa.

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2.

Fuori faceva freddo, c’era la nebbia. Il venticello che avrebbe dovuto farmi venire la pelle d’oca non mi dava fastidio.
Camminai mezzora seguendo la strada principale e non incontrai nessuno. Ero esausta e con i vestiti ancora fradici di sangue per colpa dell’umidità. L’alba incombeva.
«Presto sarà tutto finito» sussurrai. «Mi sveglierò nel mio letto, o in quello di qualcun altro. Mi preparerò la colazione o un dopo sbronza, non importa. I brutti sogni spariscono con i primi raggi del sole».
Ma quando i primi raggi arrivarono, l’incubo cominciò a prendere forma.
La pelle iniziò a prudermi, diventò bollente, gli occhi presero a lacrimare senza controllo. Mi portai un braccio davanti al viso nel tentativo di proteggermi. Avvertii una tremenda sensazione di bruciore fino alla spalla e poi la nausea si impadronì di me. Barcollai. E nel momento in cui lasciai ciondolare il braccio verso l’asfalto mi resi conto che non erano lacrime quelle che mi bagnavano le guance. Era sangue. Il mio sangue.
Mi spostai dalla strada e presi una scorciatoia attraverso un giardino fino ad arrivare a una vecchia autorimessa. Camminai nelle zone buie create dalle montagne di macchine accatastate ma ormai il sole si era staccato dall’orizzonte e il caldo si faceva sempre più opprimente.
“Presto sarà tutto finito” pensai.
Sotto una tettoia scorsi un cassonetto dell’immondizia che puzzava di birra fermentata e cibo marcio. Non avevo scelta. Lo aprii senza sforzo e mi ci gettai dentro, richiudendolo con un tonfo. Lo strano bruciore sulla pelle si attenuò quasi all’istante e un’irresistibile spossatezza mi colpì come una mazzata alla base del collo.
Crollai in un angolo, impotente e sudicia, come un rifiuto in attesa di essere smaltito.

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3.

Mi risvegliai nella stessa posizione in cui mi ero addormentata e dal tanfo intuii che dovevo trovarmi ancora nel cassonetto dell’immondizia. Mi arrampicai sui sacchi, sollevai il coperchio abbastanza da ricavarne uno spiraglio e mi guardai intorno con circospezione.
Era di nuovo notte.
Uscii. Gironzolai nelle vicinanze fino ad arrivare davanti alla stamberga che doveva fungere da ufficio dell’autorimessa. Fuori c’era un distributore di bibite acceso e funzionante. Avevo così tanta sete da non riuscire più a deglutire, eppure nessuna di quelle lattine ghiacciate mi faceva venir voglia di cercare qualche moneta da inserire nella macchinetta.
Mi soffermai a osservare la superficie in acciaio lucido che la rivestiva: rifletteva tutto tranne me. Un sorriso amaro mi tagliò in due il viso. Stavo iniziando a farci l’abitudine.
Abbassai il mento e mi guardai la maglietta ormai irrigidita dal sangue essiccato. Il logo del gruppo rock era seppellito sotto la chiazza scura e probabilmente non sarebbe riemerso mai più.
Qualcosa, forse l’istinto, si sostituì alla mia volontà. Sollevai un lembo e lo annusai, poi lo misi tra le labbra cercando di sciogliere i grumi con la saliva. L’idea di quello che stavo facendo smise di disgustami quando la melma che raschiavo con avidità dalla trama lisa della t-shirt cominciò a donarmi un innaturale sollievo.
Un fruscio proveniente dal boschetto vicino al rimessaggio mi mise in allarme. Mi nascosi dietro al distributore automatico, sporgendomi appena da un lato per vedere cosa stava succedendo.
Una clochard sbucò da un cespuglio con ancora parte dei pantaloni calati. Si risistemò con cura, come se fosse appena uscita dalla toilette delle signore, e si avviò per la strada con un carrello della spesa carico delle sue poche cose.
Fu di nuovo l’istinto a muovermi.
La seguii fino al limite della periferia poi, quando decisi che era il momento, mi avvicinai a lei senza farmi notare. La attaccai alle spalle con sicurezza come se fosse stato un rituale compiuto ormai per la millesima volta. Lei provò a opporsi, invano. Le strinsi una mano attorno alla gola piccola e unta fino a penetrarla con le unghie. La mia forza mi sorprese.
Nessun urlo, nessuno spettatore. Afferrai il cadavere per i piedi e lo strascinai in un vicolo poco distante. Non feci domande a me stessa, non cercai di resistere. Bevvi il sangue dalla ferita fino a vomitarlo, poi ricominciai da capo. Lo respirai, perfino. Una volta piena mi sdraiai supina a fianco della salma arida e fissai il lampione che con intermittenza dava e toglieva luce alla stradina cieca.
Mi concessi qualche minuto prima di rovistare tra gli effetti personali della vagabonda. Trovai una maglia nera a maniche lunghe che non aveva mai indossato e un paio di pantaloni verde militare. Mi ripulii, mi cambiai e mi pettinai i capelli all’indietro. Curiosai ancora. In una cassetta d’alluminio che in passato aveva contenuto biscotti al burro da discount c’era uno specchietto tascabile con una crepa che lo tagliava in mezzo.
«Non potersi guardare allo specchio aiuta» constatai.
Tra le cianfrusaglie trovai un coltello a serramanico. Aveva una bell’impugnatura in osso ma la lama era ossidata e consunta. Anche se la punta era scheggiata scommisi con me stessa che il suo lavoro lo avrebbe fatto ugualmente. Forse con addirittura più brutalità. Mi alzai la maglia e strinsi l’arma con entrambe le mani.
«Presto sarà tutto finito».
Mi trafissi la pancia affondando il pugnale fino all’elsa. Soffocai un grido e un’imprecazione mentre una fitta lancinante mi piegò le gambe. Estrassi il coltello dalla carne e lasciai che cadesse a terra con un tintinnio. In quell’istante percepii il sangue della donna farsi strada tra le mie vene. Non sentivo più dolore. In nemmeno dieci secondi il taglio si rimarginò senza lasciare cicatrici.
L’incubo era diventato un sogno.
Mi sentii potente, vincente, euforica, furba, imbattibile, superba, immortale. Ballai sul selciato insanguinato a ritmo dello scolo della grondaia inchinandomi infine alla mia ombra sul muro, l’unica parte di me che mi era rimasta.
Lasciai il cadavere ai topi e al suo destino, avviandomi verso il mio. Sentivo il sangue che mi parlava e che mi chiedeva di essere felice. Mi chiedeva di non avere rimorsi. Ero la principessa di un reame di morte, nessuno avrebbe potuto contrastarmi. Vestivo una corona invisibile, la notte era il mio trono. Avrei preso chi volevo, quando lo volevo, nel modo che desideravo e fin quando ne avrei avuto voglia.
Una voce maschile dietro di me arrestò bruscamente la mia marcia trionfale.
«Lasci tracce dappertutto, bambina» mormorò.
Nell’attimo in cui provai a girarmi per fronteggiarla, una lama sottile mi sbucò dal petto all’altezza del cuore.
«Neonati e orfani» lo sentii brontolare, «che dannata seccatura».
Rovinai a terra come un manichino urtato da un passante. Non riuscivo a muovermi né a reagire. Il sangue non mi parlava più. Con la coda dell’occhio vidi la mia mano avvizzire lentamente, dalla punta delle dita via via sempre più giù. Osservai il tatuaggio dell’Efemerottero che avevo sul dorso vicino all’attaccatura del pollice.
La pelle si era rinsecchita a tal punto da confonderne le linee e i dettagli; ora era solo un disegno indistinguibile, una macchia nera senz’anima. Come me. Eppure una volta era stato un bel tatuaggio; una stilizzata rielaborazione di un crudele mistero della natura, così come io ero stata una brava ragazza.
«Un regno breve» bisbigliai a fatica con sadica ironia, prima di percepire con piena coscienza il mio corpo dissolversi nel vento.

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FATE – Storie di terra, fuoco, acqua e vento

09 martedì Dic 2014

Posted by Giorgia Penzo in Racconti

≈ 4 commenti

Tag

antologia, fantasy, fate, i doni delle muse, leggere, libri, libro, mitologia, racconti, racconto, storie, urban fantasy

Custodi di segreti inviolabili, a metà tra la terra e il cielo,
dalla bellezza sovrannaturale e sempre pronti all’inganno:
ogni tempo e ogni cultura raccontano fiabe e leggende
sugli esseri del 
mondo fatato,
connessi per tradizione agli elementi.
Figure del destino, 
della volontà e del soprannaturale
sono sorti nei giorni in cui la prima alba 
ha illuminato il mondo
e hanno accompagnato la nostra infanzia,
insinuandosi nei nostri sogni e nella nostra immaginazione.
Questa antologia raccoglie i racconti di autori
che si sono lasciati sedurre dal 
loro fascino remoto,
attraverso una rilettura originale di miti e storie 
antiche.
Perché il fantasy non è altro che ciò che resta al mondo moderno
dei simboli immortali scolpiti nella memoria dell’umanità.

È uscita per la casa editrice I Doni delle Muse la raccolta FATE – Storie di terra, fuoco, acqua e vento. Si tratta di un’antologia strettamente tematica e ogni racconto è collegato agli altri da analogie simboliche che l’editore ha spiegato attraverso un breve saggio introduttivo.

Ho il piacere di farne parte, insieme ad altri talentuosi autori, con il mio racconto Colei che porta la vittoria:

❝ Immaginate un futuro alternativo dove le ninfe acquatiche hanno conquistato il mondo, condannando il genere umano all’estinzione a causa di un’antica profezia. L’autrice ci offre un affresco inquietante e affascinante, attraverso riferimenti colti come quello alla Chioma di Berenice, opera del poeta greco Callimaco, e alla mitologia greca ❞ .

 

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Per conoscere l’elenco completo dei titoli e degli scrittori coinvolti potete visitare il blog de I Doni delle Muse Edizioni.
Se state cercando un libro fantastico da mettere sotto l’albero, questo è quello che fa per voi! :)
Potete trovarlo in vendita nei migliori store online tra cui Amazon e IBS, oppure ordinarlo nella vostra libreria di fiducia.
Se avete un profilo su Goodreads aggiungetela ai vostri scaffali! :)

Buone letture!

 

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“Leggo per legittima difesa” (Woody Allen) – Promozione estiva su libri e ebook

04 venerdì Lug 2014

Posted by Giorgia Penzo in Racconti, Romanzi, Saggi

≈ 4 commenti

Tag

amazon, antologia, ebook, estate, horro, kobo, leggere, letture, libri, libro, promozione, racconti, racconto, sconti

In concomitanza con l’avanzare dell’estate (e anche per festeggiare il primo compleanno del mio romanzo d’esordio :D ) sono felice di comunicarvi che il mio editore ha indetto una sostanziosa promozione estiva sul suo catalogo!

Fino al 31 agosto sullo store di Editrice GDS trovate la brossura di Red Carpet e Asphodel scontata del 50%. Se preferite il formato elettronico, entrambi i romanzi sono acquistabili su Amazon e Kobo al prezzo promozionale di 0,99 € :)

Ne approfitto per segnalarvi dove trovare i miei altri lavori:

  • Se volete una piccola pausa e coccolarvi con un racconto, a meno di 1 €  ed esclusivamente in ebook potete leggere La Stella di Seshat edito da SEM Edizioni, disponibile su Amazon e Kobo.
  • Sempre in ebook, vi invito a non lasciarvi scappare le antologie collettive della casa editrice La Mela Avvelenata, dove sono presente con tre racconti insieme ad altri talentuosi autori e autrici. L’antologia Asylum 100 edita da ST-Books, a cui ho partecipato con un brano, è invece disponile sia in ebook che in brossura e racchiude una macro raccolta di cento storie dell’orrore da non perdere.
  • Se invece amate la storia e la saggistica, vi segnalo il mio ebook I processi a Luigi XVI e Maria Antonietta – Dal trono al patibolo, edito da Genesis Publishing. Il saggio analizza l’ambiente storico e giuridico nel quale si sono svolti i processi agli ultimi sovrani dell’ancien régime e mostra gli intrighi, i giochi politici dietro le sentenze, e la sommarietà con cui è stata spazzata via un’era.

Non mi resta che augurare buona estate a tutti voi e, soprattutto, buone letture! :)

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La Stella di Seshat – Estratto #2

17 sabato Mag 2014

Posted by Giorgia Penzo in Racconti

≈ 10 commenti

Tag

ebook, estratto, La Sella di Seshat, mistero, racconti, racconto, sem edizioni, urban fantasy

❝ […] «Infine lei, signorina Fitzroy. Archeologa, consulente del British Museum ed eminente studiosa di civiltà antiche. È la mia punta di diamante. Ritrovi la mia roba e me la riporti, a tutti i costi».
Malachia mi regalò uno dei più esaustivi sguardi di sempre. Si scriveva “archeologa”, ma si leggeva “tombarola”, come gli era sempre piaciuto farmi notare nel suo conturbante italiano. 
Per lui non ero altro che una predona, colta e senza scrupoli, pronta a vendere l’anima per una pergamena. Eravamo in affari da molti decenni. Io guidavo gli scavi in giro per il mondo e riportavo alla luce immense fortune, lui rivendeva e piazzava i reperti ai migliori offerenti. Malachia aveva guadagnato ricchezza e bellezza – dettagli senza i quali non sarebbe riuscito a vivere – e io la curatela occulta del British Museum. 
Era l’unico a conoscere il mio vero nome, Sophie Anne Bonacieux. Un dettaglio polveroso che ormai esisteva solo nei miei ricordi e in lettere che pensavo fossero andate perdute, prima che lui le ritrovasse in un antico baule risalente al tardo Rinascimento. 
❞

La Stella di Seshat, SEM Edizioni. Disponibile in ebook su Amazon e Kobo.

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Giorgia Penzo, emiliana, ha l'anima un po' incastrata nel passato. Ama il cinema, la mitologia e scappare a Parigi alla prima occasione. È autrice di "Ogni giorno come il primo giorno" (Editrice Nord) e "Il custode di Elias" (Il Battello a Vapore).

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