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Oggi, nell’anno 1536, Anna Bolena saliva gli scalini del patibolo sul lato nord della White Tower.
Era la seconda moglie di Enrico VIII, la donna di cui si era innamorato al punto da rinnegare Roma. Aveva scalzato Caterina d’Aragona, ottenuto di essere incoronata regina, diviso il popolo e ammaliato il re fino a costringerlo a fondare la sua Chiesa.
Anna aveva commesso un singolo errore: non concepire un maschio, l’erede al trono. L’unica figlia nata dall’unione col sovrano, Elisabetta, non era una ricompensa sufficiente per tutto quello che Enrico aveva sacrificato per averla.
Così la passione si trasformò in astio; l’amore in odio; il gesto avventato di un re nel maleficio di una strega. Una strega dai capelli scuri il cui motto era: “la più felice“. Ed Enrico decise di disfarsene.

Scuola francese del XVI secolo. Ritratto di Anna Bolena.
Il processo di Anna Bolena fu una cinica operazione, montata all’unico scopo di condannarla a morte; a tanto si doveva arrivare affinché il terzo matrimonio nel re risultasse limpido come la reputazione della nuova amata.
Anna venne accusata di adulterio, incesto col fratello e pratiche demoniache allo scopo di soggiogare il re. La sua innocenza è certa. La regina non ammise mai alcuna colpevolezza e tutte le prove portate contro di lei non ammontano che a un insieme di mezze verità e di vere e proprie bugie.
Andarono a prenderla nella sua prigione la mattina presto di venerdì 19 maggio, attorno alle otto. Indossava un mantello di ermellino sopra una tunica di damasco verde scuro con guarnizioni di pelliccia e una sottoveste color cremisi. Una cuffia di lino bianco le avvolgeva i capelli sotto il copricapo. Le parole che rivolse alla folla davanti al patibolo furono poche e molto toccanti:
“Signori, mi sottometto umilmente alla legge poiché la legge mi ha giudicato. Quanto alle mie colpe, non accuso nessuno. Dio le conosce, e a Lui le rimetto, supplicandolo di avere pietà di me. Che Cristo salvi il re, mio sovrano e signore, il più buono, nobile e gentile principe che vi sia, che regni a lungo su di voi“.

Il momento dell’esecuzione raccontato dal film “L’altra donna del re”.
Poi Anna s’inginocchiò. Le dame le tolsero il copricapo. I folti capelli neri, trattenuti dalla cuffia, lasciavano libero l’esile collo. Agli spettatori parve che improvvisamente il boia le staccasse la testa come un sol colpo con la spada che gli si era materializzata tra le mani come per magia, senza che nessuno lo notasse. In realtà la famosa “spada di Calais” era nascosta sotto la paglia sparsa attorno al ceppo. Perché la condannata tenesse la testa nella posizione giusta e non si girasse istintivamente indietro, il boia gridò a qualcuno che stava sui gradini del palco: “Portatemi la spada“.
Anna volse la testa. E tutto fu finito.

Targa presente alla Torre di Londra che identifica il luogo dove venne eretto il patibolo.
Anna Bolena aveva trentacinque o trentasei anni. Non era nata principessa, eppure era stata regina per tre anni e mezzo; soltanto da quattro mesi era morta quella che l’aveva preceduta. Corse voce che il giorno prima dell’esecuzione i ceri attorno alla tomba di Caterina, nella cattedrale di Petersbourgh, si fossero accesi da soli. In varie parti del paese la gente vide passare lepri in corsa (animale simbolo delle streghe); lo stesso fenomeno sarebbe stato osservato per anni a venire il giorno dell’anniversario dell’esecuzione.
Il sogno di Enrico VIII non si avverrò mai. Nessuna delle sue sei mogli riuscì a dargli un erede maschio che vivesse abbastanza per regnare stabilmente sull’Inghilterra. Nella morte, Anna Bolena ebbe la sua vendetta: era la madre dello Scisma Anglicano e sarebbe stata anche quella di una grande regina. La figlia Elisabetta Tudor succedette al padre e divenne uno dei sovrani più longevi, influenti e amati della storia.

Elisabetta I nel giorno della sua incoronazione. Il ritratto è del primo decennio del XVII secolo ed è una copia dell’originale del 1559, andato perduto.
Oggi i resti di Anna Bolena riposano sotto il pavimento marmoreo della chiesa di San Pietro ad Vincula – la cappella reale della Torre di Londra – vicino a quelli di un’altra moglie di Enrico VIII, la cugina Catherine Howard. Il suo scheletro venne identificato solo in occasione dei lavori di ristrutturazione dell’edificio religioso nel 1876, durante il regno della regina Vittoria.
C’è chi dice che, di notte, il suo fantasma vaghi ancora nei cortili deserti della Tower. Una figura pallida, elegante, che sottobraccio porta con sé la propria testa…

Fonte: "Le sei mogli di Enrico VIII", Antonia Fraser.
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