Il riflesso di Carola

Antefatto

Ogni bambino al momento della nascita, esattamente come ogni creatura od oggetto della terra, riceve due cose che lo accompagneranno per tutta la vita: l’ombra e il riflesso.
Diversamente da quelle degli animali, delle piante o delle cose, le ombre e i riflessi degli esseri umani assorbono  sin dal principio un poco del male del mondo.
Appena un neonato viene alla luce, le sue emanazioni intangibili cominciano a guastarsi: le ombre, che di giorno lo seguono assiduamente, di notte diventano un tutt’uno con l’oscurità. Si fondono insieme e, mentre la persona dorme, l’avvolgono come una coperta tetra e impenetrabile, creando incubi spaventosi. La natura delle ombre è pigra: sono schiave accidiose che, dopo i primi sogni angosciosi, aggrediscono il proprio padrone solo di rado.
Il vero pericolo, inaspettatamente, si nasconde negli specchi.
A differenza delle ombre, servili e un po’ ribelli, i riflessi sono ineluttabilmente gelosi.
Osservano il mondo dall’altra parte, invidiando la libertà dei loro signori e, quando nessuno li vede, tramano avidamente di prendere il loro posto. Osservano in segreto la persona alla quale appartengono, cercando il momento opportuno per sostituirsi a essa. Lo scambio non è mai consenziente.
Non vi è mai capitato di conoscere qualcuno che, da un giorno all’altro, ha mutato repentinamente atteggiamento? O che si è macchiato di qualcosa di cui non lo avreste mai sospettato? A volte, più spesso di quando si creda, queste persone non sono davvero chi crediamo che siano, ma i loro riflessi evasi.
Nel caso della signorina Carola Arnolfini, il suo riflesso attese dieci anni, fino a un tardo pomeriggio di luglio del 1953.


Primo atto

Carola era riservata e introversa, viziata come tutte le bambine sole e benestanti. Era l’unica figlia di una coppia borghese di Firenze che non aveva mai tempo per lei, e adorava solo tre cose: farsi pettinare i lunghi boccoli biondi dalla tata, andare in bicicletta nella tenuta di famiglia di Villa Esperide e passare le giornate nella stanza dei giochi.
Quella camera era piena di puledri di peluche, bambole, carillon, set da ricamo, casette in miniatura e un grande specchio che dava sul patio, posto di fianco a una spalliera di legno che utilizzava per gli esercizi di danza classica.
Carola aveva tutto quello che poteva desiderare e, nonostante l’affetto distaccato dei genitori, era una bambina felice. Il suo riflesso la odiava per questo.
Poteva giocare solo fino a quando lei non si stancava; assaporava il gelato ai lamponi quando la bambina lo mangiava davanti allo specchio; indossava controvoglia i pomposi abitini che piacevano tanto a quella piccola vanitosa e la seguiva di specchio in specchio senza poter mai accennare a un rifiuto. Ma, sebbene riproducesse tutti i movimenti di Carola, il riflesso non aveva mai sentito il suono della sua voce.
Da dietro lo specchio, attento a non farsi notare, vedeva la bambina correre in cortile, sapendo che mai avrebbe potuto imitarla. Quando però lei si faceva male e si specchiava in lacrime, con le ginocchia sbucciate, la sua immagine era costretta a piangere e a sanguinare con lei. Il suo risentimento cresceva giorno dopo giorno.
Quando giungeva il momento di coricarsi, il riflesso di Carola osservava la sua padroncina addormentata dallo specchietto sul comodino.
Gli ci vollero  nove anni per perfezionare il suo piano. Aveva a disposizione un solo tentativo per prendere il posto della bimba e sapeva che, se avesse fallito, non sarebbe più potuto fuggire dalla sua prigione.


Secondo atto

Quella fatidica domenica di luglio Carola era vestita a festa per il suo decimo compleanno. Aveva un delizioso vestitino bianco a fiori gialli e ballerine di raso in tinta. I camerieri erano indaffarati a preparare il rinfresco che si sarebbe tenuto da lì a breve in giardino e il riflesso di Carola approfittò della momentanea assenza della padroncina dalla stanza dei giochi.
Sopra un tavolino bordato da un centrino color crema, stava un piccolo vassoio d’argento. Al centro, su un piattino di porcellana, c’era la merenda che la premurosa tata aveva preparato per la bambina: una mela gialla tagliata a spicchi, lucida e sugosa, spruzzata di succo di limone, perché non annerisse, e poggiata su un letto di zucchero a velo.
Esattamente come nella realtà, anche nel mondo distorto del riflesso esisteva lo stesso vassoio, ma il frutto tagliato posto a raggiera non era succulento come quello vero. Era finto, insapore e fatale per qualsiasi creatura al di qua dello specchio. All’interno della polpa, infatti, era stipata l’essenza velenosa di quel non luogo: se un essere reale avesse ingerito cibo riflesso, avrebbe inevitabilmente corrotto il suo corpo solido e creato un ponte tra i due mondi.
L’immagine di Carola controllò di essere completamente sola, poi sporgendosi oltre lo specchio con estrema circospezione, afferrò il piattino e lo sostituì con quello del suo mondo. Li collocò entrambi nella stessa posizione, con precisione millimetrica, quindi sparì, in attesa che la bimba tornasse.
Non ci volle molto perché la festeggiata, incuriosita dai pacchetti stipati nella camera, rientrasse dal giardino per aprirli, in barba alle richieste dei genitori.
Si sistemò a gambe incrociate davanti alla grande specchiera, facendo scricchiolare le scarpe nuove sul parquet. La sua immagine, ovviamente, fece lo stesso. La bambina afferrò svogliatamente  uno dei regali con una mano, mentre con l’altra prendeva una fetta di mela. Se la portò alla bocca, ne staccò un pezzo con un morso e lo masticò per alcuni istanti, riponendo l’altra metà dello spicchio sul vassoio.
«Non sa di niente» borbottò tra sé, deglutendo.
Era fatta.
Il bigliettino d’auguri: “A Carola, la mia principessa, con immenso affetto. Zia Giulia”, era adagiato sul cofanetto di velluto blu che stringeva.
Arrivava direttamente da Venezia. Conteneva un raffinato diadema di alta bigiotteria impreziosito da gocce di vetro di Murano, che la bambina si sistemò entusiasta tra i capelli d’oro.
La piccola corona catturava la luce estiva e sul muro della stanza si scatenò un arcobaleno di colori. Carola, però, voleva vederne ogni dettaglio.
Si avvicinò alla specchiera fin quasi a sfiorare la superficie col nasino. Improvvisamente due braccia infantili uscirono dallo specchio, attraversandolo come un muro gelatinoso e inconsistente.
Così come si era ripromesso nelle interminabili notti di veglia, il riflesso ghermì i piccoli polsi della bambina, senza darle la possibilità di divincolarsi. Prima che la sua vittima potesse gridare, quelle braccia pallide e forti la trascinarono nel mondo dal quale si erano sporte.
A nulla valsero gli sforzi di Carola. Il vano tentativo di opporre resistenza puntando i piedini contro la cornice dello specchio, non fece altro che offrire al mostro dall’altra parte un valido appoggio sul quale arrampicarsi e fuggire.
Il riflesso oltrepassò il varco che il corpo della bambina aveva aperto esattamente un istante prima che si richiudesse, badando che Carola non lo seguisse.
Finalmente era libero.
La prima cosa che fece fu specchiarsi: aveva il vestitino bianco a fiori gialli,  le ballerine di raso in tinta e tra i capelli portava il diadema, esattamente come la bambina dall’altra parte. Carola a iniziò a battere disperatamente le mani dietro lo specchio, gridando senza riuscire a emettere alcun suono. Per tutta risposta il suo riflesso, che ora era una bimba vera, le sorrise in modo sinistro, accarezzando la  bambola di porcellana preferita della piccola umana.
Era identica a Carola, in tutto e per tutto. Stessa età, stessa statura, fisionomicamente perfetta. Tuttavia il riflesso che ora si spacciava per lei non aveva un’anima, nemmeno un brandello.
Bastava osservarlo abbastanza a lungo negli occhi vuoti per rendersene conto. Ma chi mai ci avrebbe fatto caso?
«Tesoro, i tuoi amici sono arrivati. È ora di tagliare la torta» annunciò la tata entrando nella stanza.
«Arrivo!» rispose il simulacro, facendo un’innocente riverenza.
Come ogni riflesso, ora Carola doveva sottostare alle regole del mondo speculare. Fece un bell’inchino, allargando i lembi della sua gonna a ruota.
«Quella mela non mi piace, non voglio più mangiarla» continuò. «Buttala via».
«D’accordo» affermò la governante in tono arrendevole, mettendosi il vassoio sull’avambraccio.
Carola vide il riflesso malvagio prendere per mano la tata, non destò alcun sospetto. Eppure quella donna l’aveva cresciuta, cullata nei giorni tristi, vestita, pettinata, ascoltata, curata, amata da quando ne aveva memoria. Come poteva non accorgersi che stava tenendo per mano un demone e non la sua piccola Carola?
Tutto andava secondo i piani della creatura. La falsa signorina Arnolfini uscì dalla stanza saltellando e si chiuse dietro la porta, senza degnare di uno sguardo la propria vittima.
Carola rimase  a contemplare dietro quel vetro ormai inattraversabile, tutti i suoi giochi e la spalliera dove si allenava costantemente per il saggio di danza.
Non aveva ancora idea di tutte le privazioni che l’attendevano nei mesi e negli anni a venire. Non sapeva che non avrebbe più potuto contare su nessun aiuto o conforto, perché i riflessi non comunicano tra loro, e  anche se due persone si abbracciano davanti al medesimo specchio, i loro riflessi interagiscono solo meccanicamente, senza alcuna emozione a muoverli. Non ci sono  sentimenti, dietro quelle fredde lastre. Non c’è amicizia, né amore, non si parla, non si danza. Si imita e basta, e si è soli per sempre.
Presto la buona Carola, prigioniera dello specchio, si sarebbe guastata. Sarebbe diventata il degno riflesso del suo riflesso, gelosa e astiosa. Avrebbe tramato contro di lui, così come l’impostora che adesso tagliava la torta e vestiva le sue gonne di taffetà aveva fatto per dieci lunghi anni.
Ma il riflesso di Carola sapeva, e non avrebbe mai fatto l’errore della bambina.
Per nulla al mondo, finché avrebbe avuto vita, si sarebbe mai avvicinato a uno specchio tanto da poterlo toccare.

il-riflesso-di-carola_specchio_horror_halloween[disponibile anche su Wattpad]