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Zona Noce, Poviglio, Reggio Emilia

Quindici ore senza rumore. Niente rombi di camion nella strada dietro casa, niente sgommate di auto che di solito sfrecciano sulla statale né vetri che tremano per via del frastuono.
Niente clacson o frenate, o cicalino del furgoncino della nettezza urbana, niente pullman della scuola sotto la mia finestra. Niente di niente.

Soltanto il crepitio dei fiocchi sui cumuli di neve, il tonfo dei rami rotti, le pale che grattano i cortili, le imprecazioni, i cordiali scambi di convenevoli tra persone immerse nel bianco che si ricoprono vicini di casa. Non sapevo di averne così tanti.
Escono come formiche dai loro caldi rifugi, quasi contrariati per non poter raggiungere l’ufficio. E spalano aspettando che faccia buio, e che il tempo conceda un po’ di tregua.

Quindici ore di cui dieci senza elettricità. Si tirano fuori i mozziconi di candele e sovrappensiero si pigia comunque l’interruttore della luce quando si entra in una stanza.
Niente internet, niente televisione, pessima rete del cellulare. Non ci si può asciugare i capelli, non si usa il microonde, non si fa partire la lavastoviglie e i piatti vanno lavati a mano.
Chiamare al lavoro, comunicare che non si riesce a uscire di casa, aspettare una conferma, confrontarsi con le colleghe, assaporare il disagio di un weekend buttato, prigioniera sotto il piumone.

Quindici ore senza rumore, e immagino ne passeranno altrettante prima di sentire di nuovo i suoni molesti della quotidianità.
Oggi, in questa giornata passata a far la spola dal caminetto alla finestra, ho pensato molto a una frase di mio nonno. Un cavallo di battaglia di tutti i nonni, probabilmente: qui una volta era tutta campagna.
La vita non era frenetica, le serate erano silenziose, si famigliarizzava col vicinato senza bisogno di un’emergenza meteo, i campi si allargavano dove oggi ci sono le tangenziali e la neve cadeva comunque.

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